My broken Mariko
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Il dolore, di chi va, e di chi resta

sostanzialmente “My Broken Mariko” parla di questo.

Tomoyo Shiino, un’impiegata, una di tante, una sera apprende che la sua amica di infanzia, Mariko Ikagawa, si è tolta la vita.

Tomoyo quindi si fa forza, con un pretesto avvicina la famiglia di Mariko, Padre alcolizzato e violento, Madre inerte e servile, entra in casa loro, ruba le ceneri della ragazza, per poi scappare a Capo Marigaoka, luogo dove la sua amica desiderava andare, almeno una volta.

Tomoyo, nel corso della storia, sembra procedere in una sorta di viaggio di espiazione, per non essere stata capace di salvare la sua amica, dalla lenta deriva che la stava portando via.

Procedendo con la lettura però, scopriremo un rapporto più profondo e sfaccettato, tra le due, che rivela un giudizio dell’autrice, per nulla buonista, né verso chi si suicida, ne chi rimane.

Questo manga è stato un pugno allo stomaco, per l’ineluttabilità del finale, l’impotenza, e la malinconia che permeano pensieri, parole e azioni della protagonista, sensazioni che l’autrice ha avuto cura di non smorzare con una narrazione caricata, estenuante, buia, ma ha paradossalmente esaltato, inserendo nella vicenda alcuni momenti leggeri, per non dire comici, finiti i quali, per contrasto, i successivi momenti maturi e introspettivi, acquisiscono ancora più senso e impatto.

La forza di questa storia è ancora più evidente se pensiamo che la madre dell’artista, Waka Hirako, è stata vittima di violenze dimestiche. My broken Mariko riflette le angosce della madre, così come le frustrazioni della figlia “se solo fossi stata io tua madre” sentiamo lamentare Tomoyo.

Per questo, My broken Mariko, è una di quelle opere impossibile da non raccomandare, perché sa parlare a tutti, vittime e non, ci interroga, ci chiama in causa, ma sempre con delicatezza e intelligenza.

My broken Mariko

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